segunda-feira, 16 de fevereiro de 2009

Guardare la Luna, da Galileo



La parola Luna – spiega il linguista Manlio Cortellazzo, morto a novant’anni una settimana fa, nel suo notissimo Dizionario etimologico edito da Zanichelli – deriva dalla radice indoeuropea Leuk - splendere. Le parole luce e Luna rimandano dunque l’una all’altra come in una specie di tautologia. Eppure, primo paradosso, la Luna non ha luce. E’ buia, anzi nera come la lavagna o, nelle regioni più chiare, grigia come il cemento. Ci sembra bianca solo per una sorprendente illusione percettiva. Nel 1929 lo psicologo della Gestalt Adhémar Gerb ideò l’esperimento che spiega l’ingannevole colore della Luna. In una stanza semibuia sospese un disco nero e lo investì con il fascio di luce di un faro nascosto all’occhio dell’osservatore. In queste condizioni, con la stanza in penombra, il disco nero appariva bianco, e perfino luminoso aumentando la luminosità del faro.

Riflettanza (la capacità di un corpo di riflettere la luce) e luminanza (l’intensità della luce riflessa) sono cose ben diverse: un corpo può apparire bianco quando ha la massima luminanza nel nostro campo visivo, si tratti di un disco nero in una stanza semibuia o della Luna sullo sfondo del cielo notturno. L’ombra curva della Terra che durante le eclissi totali avanza sulla Luna piena e la inghiotte è ancora inquietante anche per l’uomo moderno perché mette a nudo un insospettato meccanismo della percezione visiva.

La luce della Luna è – lo sappiamo fin dalle scuole primarie – luce riflessa. La Luna è per la Terra uno specchio del Sole. Specchio a geometria variabile, dalla falce più esile all’assorta rotondità del plenilunio. C’è, in questo specchio spaziale, un altro fenomeno curioso oltre a quello smascherato da Gerb. Nella fase crescente e calante, la Luna diventa un doppio specchio: la luce che ci rimanda è in parte quella riflessa dalla Terra. Un ping-pong ricco di significati simbolici che ha dietro di sé una storia interessante.

Tutti l’abbiamo osservato: quando la Luna è una falce, spesso si intravede anche il resto del suo disco. Mentre la falce, per l’abbagliamento dovuto alla sua luminosità, sembra dilatata, il disco ancora in ombra ci appare più piccolo e debolmente rischiarato da un crepuscolo grigio, color cenere. “Luce cinerea”, infatti, è il nome del fenomeno. Pur attenuandosi di sera in sera, questo fioco chiarore dura fino alla vigilia del primo quarto, per poi ricomparire nella fase calante poco dopo l’ultimo quarto. Se si osserva con il telescopio, nella penombra della luce cinerea riusciremo a indovinare il contorno delle “terre” e dei “mari” e alcuni punti più luminosi, come i crateri Aristarchus, Tycho e Kepler.

La luce cinerea altro non è che il “chiaro di Terra”, circostanza da non trascurare in vista di future passeggiate romantiche tra i crateri lunari. Le fasi sono infatti reciproche – altro fatto elementare ma non subito intuitivo. Dunque, quando la Luna è prossima al novilunio, rispetto ad essa la Terra risulta quasi “piena”.

Grazie all’atmosfera e al candore delle nuvole, il nostro pianeta è uno specchio abbastanza efficiente: riflette il 38 per cento della luce che riceve, contro il 7 per cento della Luna. Si può calcolare che la “Terra piena” risulta per un osservatore lunare 80 volte più luminosa della Luna piena. Una piccola percentuale di questa luce viene a sua volta rimandata dalla Luna fino a noi. Ed è appunto quella che chiamiamo luce cinerea. Simmetricamente, un osservatore che si trovasse sulla Luna, quando la Terra appare in falce potrebbe scorgere la parte in ombra della Terra lievemente illuminata dal chiaro di Luna.

Questa spiegazione è molto semplice ma non è altrettanto immediata. Fino a pochi secoli fa della luce cinerea si sono date interpretazioni fantasiose: chi affermava che la Luna brilla anche debolmente di luce propria, chi sosteneva che essa è lievemente trasparente (traslucida), e quindi lascia filtrare da parte a parte un po’ di luce solare; altri ancora supposero che la sua superficie fosse fosforescente o che riflettesse la luce delle stelle. Tycho Brahe, maestro di Keplero e anello di congiunzione tra l’astronomia antica e moderna, addirittura spiegò la luce cinerea come un riflesso dello splendore di Venere (in effetti sulle Ande, dove il cielo è molto buio e l'aria tersa, questo pianeta è abbastanza luminoso da proiettare ombre).

A parte alcune felici intuizioni degli astronomi rinascimentali Regiomontanus e di Maestlin, il primo a capire la vera natura della luce cinerea fu Leonardo da Vinci. Occorre però attendere Galileo per averne una spiegazione circostanziata, prima nel “Sidereus Nuncius” (1610) e poi nel “Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo” (1632). L'argomentazione galileiana è così precisa ed elegante che vale la pena di riportarla.

“...se voi diligentemente andrete osservando – Galileo fa dire a Salviati nel Dialogo dei massimi sistemi – vedrete sensatamente che, si come la Luna, quando è sottilmente falcata, pochissimo illumina la Terra, e secondoché in lei vien crescendo la parte illuminata dal Sole, cresce parimente lo splendore a noi, che da quella vienci riflessa; così la Luna mentre è sottilmente falcata e che, per esser tra il Sole e la Terra, scuopre grandissima parte dell'emisfero terreno illuminato; si mostra assai chiara, e discostandosi dal Sole e venendo verso la quadratura, si vede tal lume andar languendo, ed oltre la quadratura si vede assai debile, perché va sempre perdendo della vista della parte luminosa della Terra: e pur dovrebbe accadere il contrario quando tal lume fosse o comunicatole dalle stelle, perché allora la possiamo vedere nella profonda notte e nell'ambiente molto tenebroso”.

Magnifica lezione di astronomia ma anche di capacità divulgativa che Galileo ci dà e che vale la pena di apprezzare in questo “Anno Internazionale dell’Astronomia” che le Nazioni Unite hanno proclamato in ricordo delle sue prime osservazioni della Luna al cannocchiale, dell’autunno di quattrocento anni fa.

Piero Bianucci
La Stampa

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